In ricordo di Paola Di Blasio e Rose Marie Galante

Le due donne che ci hanno lasciato in questi mesi sono state due donne molto diverse fra loro. Cattolica e universitaria Paola, ribelle ad ogni tipo di convenzione e duramente femminista Rose. Quello che hanno avuto in comune queste due donne meravigliose, però, è stata soprattutto la passione con cui hanno difeso le vittime della violenza, donne e bambini, utilizzando le loro competenze, professionali ed umane, per una modifica delle condizioni in cui la violenza si produce e per curare gli effetti del trauma quando la violenza comunque è stata agita.

Affidato a due colleghi che hanno condiviso il loro lavoro, il ricordo di Rose e di Paola viene proposto qui, sulla nostra rivista, per segnalare il dolore suscitato dalla loro perdita in chi come noi ha avuto la fortuna di conoscerle ma anche e soprattutto per stimolare allo studio dei loro scritti e della loro attività gli allievi e i terapeuti più giovani: quelli che non hanno avuto la possibilità di incontrarle di persona e che tanto da loro hanno ancora da imparare.

Luigi Cancrini

A queste due donne straordinarie il Centro Studi
dedica l’acquisizione del logo di bambini nel tempo
con l’impegno di continuare le battaglie per l’infanzia
sulla linea da loro tracciata

In ricordo di Paola Di Blasio

Stefano Cirillo1

1Psicologo, psicoterapeuta, co-responsabile della Scuola di Psicoterapia “Mara Selvini Palazzoli”.

Con la morte di Paola Di Blasio se ne va un lungo pezzo della mia vita.

Ci siamo conosciuti nel 1970 all’Università Cattolica, dove entrambi eravamo allievi di Mara Selvini Palazzoli, dalla quale siamo stati affascinati e che ha segnato la strada professionale che abbiamo intrapreso. Paola frequentava l’anno successivo al mio: in entrambi i gruppi “la Selvini”, come la chiamavamo, divideva l’insegnamento del nuovo modello sistemico tra la nascente terapia familiare (di cui stava fondando il primo Centro a Milano) e l’applicazione di questo paradigma ai grandi sistemi. Con un nutrito numero di miei compagni nel 1976 scrivemmo Il mago smagato: come cambiare la condizione paradossale dello psicologo nella scuola [1] sull’istituzione scolastica; Paola e i suoi compagni si dedicarono all’azienda e all’ospedale (Sul fronte dell’organizzazione [2]).

Con uno di loro, Luigi Anolli, Paola ha costituito presto un’équipe clinica: entrambi avevano interesse per la ricerca universitaria, a cui si dedicarono con successo, ma entrambi la arricchirono con l’esperienza del lavoro terapeutico con le famiglie, esperienza non così frequente tra gli accademici.

Se guardate il documentario Mara Selvini Palazzoli. Risonanze tra vita e professione troverete una recente testimonianza di Paola al riguardo di quegli anni lontani e del debito che riconosce allo sguardo innovatore della Maestra.

Nel 1984 assieme ad altri amici e colleghi (psicologi, assistenti sociali, educatori) Paola e io fondammo il CbM (Centro per il bambino maltrattato) con l’ambizione di creare una struttura “a servizio dei servizi pubblici” della città, in primis il Tribunale per i minori.

Fedeli all’insegnamento della Selvini “ciò che non è scritto non è pensato”, noi due esponemmo nel libro La famiglia maltrattante [3] i principi fondatori della nostra esperienza nell’ostico contesto coatto, dove i genitori erano costretti a presentarsi su obbligo del giudice, e fummo molto orgogliosi della Prefazione che ci fece la nostra Professoressa!

È difficile oggi descrivere come la tutela dell’infanzia fosse vista allora dall’opinione pubblica: la stampa attaccava i giudici e gli assistenti sociali ogni volta che un bambino veniva allontanato dalla famiglia. Abbiamo raccontato più volte che in due diverse occasioni in cui presentavamo il nostro libro, i due differenti tipografi fecero lo stesso errore sulla locandina, denominando la serata “La famiglia maltrattata”. L’idea che il bambino potesse non essere al sicuro nella sacralità del suo nucleo di appartenenza era inconcepibile.

Il concetto portante del volume era la differenza tra una valutazione delle competenze genitoriali (che è statica, fotografica) e la valutazione della recuperabilità dei genitori, che invece è prognostica. Questo secondo costrutto è un dispositivo clinico (influenzato dall’istituto anglosassone della probation, di cui ci aveva messo al corrente Alessandro Vassalli, allora nostro direttore al CbM, appena rientrato da un’esperienza nell’ufficio del procuratore negli Stati Uniti). Questa messa alla prova, che allora era sconosciuta e oggi è presente almeno nel caso di minori autori di reato, permetteva di creare un aggancio con genitori riluttanti e neganti, per tentare di suscitare in loro una motivazione alla cura.

Nel libro, scritto davvero a quattro mani in lunghi dopocena a casa di Paola, ognuno di noi si occupò naturalmente in particolare di un tema, e lei di quello del bambino nel processo del maltrattamento. Lo voglio segnalare perché rappresentava una novità nell’ottica sistemica e nella prospettiva dei giochi familiari, che costituiva lo sfondo teorico del volume, prestando invece un’attenzione particolare al ruolo attivo del bambino nel decodificare la realtà, in questo caso la realtà della relazione conflittuale tra i genitori, e nel costruire le proprie alleanze e i propri schieramenti.

Quest’ottica costituirà negli anni a venire il contributo peculiare che Paola, nel progredire della sua brillante carriera accademica, dedicata alla Psicologia dello sviluppo, darà alle sue ricerche e ai suoi studi: i fattori di rischio e di protezione costituiranno lo scenario di riferimento della rivista che ha fondato per Vita e Pensiero, Maltrattamento e abuso all’infanzia, scenario che è stato apprezzato in tutto il mondo scientifico.

Necessariamente Paola negli anni ha dovuto compiere delle scelte che l’hanno costretta a dismettere l’attività clinica diretta, ma restando per l’équipe del CbM un costante punto di riferimento tanto teorico quanto gestionale.

Per me è stato un peccato rinunciare al piacere della collaborazione diretta con lei nella clinica, seguendo le sue sedute dietro lo specchio unidirezionale o sapendo di poter contare sul suo apporto quando i ruoli erano scambiati. Per anni abbiamo citato episodi divertenti dei nostri trattamenti con utenti culturalmente molto svantaggiati e lontani anni luce dal mondo della psicoterapia, che venivano conquistati dal suo calore, dal suo acume e dal suo umorismo: “Ti ricordi il signor Tal dei Tali che alla fine della seduta ti ha detto con un sospiro soddisfatto «Come è bello avere dei problemi!». Si era sentito per la prima volta accolto e ascoltato da qualcuno. “E la signora che ti diceva: «è più che logico, è psicologico!»”. Uno strafalcione che indicava l’entusiasmo con cui la paziente aveva imboccato la strada di una nuova conoscenza.

In parallelo ha generosamente affiancato la Scuola di Psicoterapia che Annamaria Sorrentino, Matteo Selvini e io abbiamo fondato nel 1993, intestandola a Mara Selvini Palazzoli quando ci ha lasciati. Paola ne è sempre stata il prezioso referente scientifico.

La crudeltà della sua malattia ci ha lasciato tutti sgomenti. Per fortuna lei, che con tanto impegno e dedizione si era occupata di assistere i propri familiari che hanno avuto a lungo bisogno del suo supporto, ha potuto contare su un impegno altrettanto infaticabile da parte di suo marito, Gustavo Ghidini, delle figlie di lui, di tanti amici e in particolare della sua ex allieva ed erede Elena Camisasca.

Mi consola aver avuto la possibilità di dedicarle questo breve pensiero.

BIBLIOGRAFIA

1. Selvini Palazzoli M, D’Ettorre L, Garbellini M, et al. Il mago smagato: come cambiare la condizione paradossale dello psicologo nella scuola. Milano: Feltrinelli, 1976.

2. Selvini Palazzoli M (a cura di). Sul fronte dell’organizzazione. Strategie e tattiche. Milano: Feltrinelli, 1989.

3. Cirillo S, Di Blasio P. La famiglia maltrattante. Diagnosi e terapia. Milano: Raffaello Cortina Editore, 198

In ricordo di Rose Marie Galante.

Cara amica che non sei più con noi

Francesco Bruni1

1Psicologo, psicoterapeuta, didatta CSTFR, direttore Istituto Emmeci, Torino.

Ho conosciuto Rose molti anni fa, negli incontri del Centro Studi. Con lei è nata un’intesa umana e professionale che si è arricchita nel tempo. Sono stato subito colpito dalla concretezza e dalla voglia di fare tipica di chi è cresciuto negli Stati Uniti e si pone con un atteggiamento pragmatico, nella vita e nella professione, insieme a una spiccata sensibilità e generosità.

Italoamericana, nata in una famiglia siciliana emigrata, Rose si è formata come psicologa in California all’Università di San Francisco completando il suo percorso con Watzlawick, Haley, Bateson, Sluzky, Minuchin, Weakland e soprattutto Milton Erickson. Ha studiato con i pionieri della terapia sistemica e si è inserita nel Mental Research Institute di Palo Alto. In California ha lavorato presso ospedali e strutture alternative della Santa Clara County.

Negli anni Ottanta giunge in Italia dove si occupa di formazione e consulenza in varie città, fra le quali Milano, Genova, Verona. A Catania fonda e dirige il Centro di Terapia Relazionale lavorando con famiglie e coppie con problemi di maltrattamento e violenza [1]. È stata un’importante didatta del Centro Studi di Terapia Familiare e Relazionale e nel 1989 è fra gli organizzatori del Convegno internazionale del Centro Studi a Budapest. Negli anni successivi il suo impegno come psicoterapeuta e formatrice si intensifica.

Si definiva una donna che proviene dal di fuori del sistema e lo vede da un’altra prospettiva, ha percorso una lunga strada umana e professionale e ha affrontato molte battaglie rivolte al cambiamento. Pioniera nell’aiutare le donne vittime di violenza. Nei primi anni in Italia molti le chiedevano perché non tornava in California. Lei non è stata educata alla rinuncia e questa domanda suonava strana. Diceva: «La mia famiglia mi ha preparato a lottare e non a fuggire». Aveva attraversato un’infanzia difficile che l’ha preparata alle battaglie della vita. Raccontava ancora: «I miei genitori erano arrivati negli Stati Uniti quasi per sbaglio. Erano gli anni Trenta e mio nonno paterno e mio padre facevano parte del partito anarchico clandestino. Quando mio nonno è stato arrestato dai fascisti mio padre, per paura di seguire la stessa sorte, ha fatto le valige e con mia madre ha preso la prima nave da Napoli per New York, dove c’era la famiglia del nonno materno di simpatie fasciste. Era una costante e continua battaglia tra anarchici e fascisti e così ho imparato a combattere e convivere con il conflitto. Urla, sgridate, insulti e minacce c’erano per tutti; se uno voleva una cosa doveva continuare a gridare fino a ottenerla. Non c’erano altri modi. Ma, come i pesci che non sanno di nuotare nel mare, non mi rendevo conto di trovarmi in mezzo a una guerra civile! E ho imparato a nuotare!» [2, p. 186].

Ha partecipato ai movimenti politici e sociali degli anni Sessanta e Settanta e alle manifestazioni per contestare le oppressioni in tutte le sue forme (guerra, genere, minoranza). Le regole erano da lei viste come una barriera da superare. Anche l’Università è stata un terreno di battaglie, in quanto i riferimenti formativi erano esclusivamente di orientamento psicoanalitico e non è stato facile per lei farsi approvare il suo percorso sistemico. In Italia ha continuato a lottare nei consultori, nella clinica e nelle scuole di formazione. Si è concentrata sull’Università di Catania dove ha introdotto il modello sistemico. «Il primario non capiva cos’era l’approccio sistemico e dopo il primo anno, quando ha visto che quasi senza farmaci si poteva fare psicoterapia anche nei casi gravi, ha deciso di eliminarmi. Ha informato il bidello che io non potevo usare l’aula che ho trovato chiusa a chiave. Così ho affittato un appartamento per completare il corso e di fatto ho aperto la mia scuola di psicoterapia. Lui ha fatto in modo che gli specializzandi che volevano finire il corso rischiassero di essere buttati fuori dal Policlinico» [2, p. 188].

A Catania promuovere la terapia sistemica non è stato facile e per questo ha dovuto uscire dagli schemi: «Ho invitato a cena il primario del Policlinico, mio grande avversario, proponendogli di organizzare a mie spese conferenze con i miei vecchi illustri maestri e lui ha acconsentito. I maestri della terapia sistemica hanno accettato e sono venuti per una cifra modesta, ospiti a casa mia. Dalla California sono arrivati tutti a fare il seminario presso la mia scuola e a tenere una lezione all’Università. In seguito con le stesse modalità ho invitato i presidenti delle scuole sistemiche italiane» [2, p. 188].

Il trattamento delle vittime di abuso è stato una costante dell’impegno di Rose come psicoterapeuta e come donna. Ha iniziato a occuparsi di vittime di violenza negli anni Settanta, quando un sacerdote ribelle le propose di fare consulenza ai cileni vittime di torture, perseguitati politici che illegalmente andavano negli Stati Uniti. Persone terrorizzate che raccontavano meccanicamente le loro terribili storie. Lei li ascoltava in silenzio e più loro si ponevano in modo distaccato più in lei cresceva la tensione. «Spesso, molto spesso, lacrime silenziose solcavano le mie gote e restavo immobile, dispiaciuta per averli offesi con la mia audacia o con la mia debolezza mentre mi raccontavano le loro storie e le loro sofferenze. Ancora oggi sono ossessionata da quelle narrazioni. Cosa aveva in mente il sacerdote che mi aveva spinta a intraprendere quell’attività?» [3, p. 17].

Da questo incontro con la sofferenza delle vittime e dal lavoro sul trauma nasce l’esigenza di un approccio più appropriato per questo tipo di trattamento. Da qui una lunga ricerca che occupa la sua vita per un modello terapeutico adeguato a tutte le vittime di maltrattamenti. Inizialmente, Rose trova nella terapia familiare e nell’approccio relazionale sistemico quello che serve per lavorare su questi problemi. A mano a mano che la sua esperienza clinica di aiuto alle vittime di violenze si arricchisce, sente la necessità di rivedere questo approccio.

Così riprende in mano il materiale clinico raccolto negli Stati Uniti e in Italia per elaborare un manuale di psicoterapia per donne legate a uomini maltrattanti.

Rose mi coinvolse in questa sua impresa e mi chiese di collaborare per dare forma ai molti casi da lei seguiti. Ricordo con nostalgia le estati trascorse a Taormina nel discutere dei casi clinici, nelle nostre lunghe chiacchierate, nel fare lunghe passeggiate anche con la sua cagnolina Sassy, nel bere ottimo vino e preparare piatti della tradizione siciliana e californiana che gustavamo insieme. Si era creato un ambiente familiare al quale partecipavano mia moglie Miriam e Michael, il marito di Rose. Per me è stato un regalo vedere nascere il suo libro che resta come suo testamento professionale. Il libro viene pubblicato nel 2012 e ripubblicato nel 2021 con una nuova casa editrice [3].

«Questo libro di Rose Galante – scrive Luigi Cancrini nella Prefazione – è un dono fatto insieme alle donne vittime di violenza e agli operatori che se ne occupano. Basato sull’esperienza reale di una terapeuta straordinaria, il resoconto che Rose fa sui casi da lei seguiti in tanti anni di lavoro, in California e in Italia, è toccante quel tanto che basta per dare l’idea di un problema diffuso e grave ma è abbastanza professionale e scientifico da poter essere portato come paradigma formativo per gli operatori dei servizi pubblici e del privato sociale che al dolore e allo smarrimento delle donne maltrattate devono dare vicinanza affettiva e, nello stesso tempo, risposte efficaci».

Nel libro Rose lascia parlare le donne per descrivere chi sono le donne che si fanno maltrattare. È toccante la storia di Angela, di cui Rose si è presa cura per anni, e della quale abbiamo molto discusso insieme. Il titolo del libro (“Perché non lo lascio?”) è la domanda che porta a risposte che sono espressione dell’angoscia che si prova nei diversi momenti nei quali si pronunciano frasi che possono sembrare confuse, piene di ripetizioni, in quanto le vittime si esprimono così: non riescono a parlare serenamente. Nell’accogliere queste storie non si può sfuggire a un profondo coinvolgimento emotivo del quale Rose era capace.

Cara amica sei stata una donna libera che ha rotto gli schemi e che ha abbattuto tante barriere. Il tuo impegno con le donne maltrattate è un lascito che ci chiede un rinnovato impegno. Riposa in pace, ti porteremo sempre con noi.

BIBLIOGRAFIA

1. Bruni F, Defilippi PG. La tela di Penelope. Origini e sviluppi della terapia familiare. Torino: Bollati Boringhieri, 2007.

2. Galante R. Pensando fuori dalla scatola. In: Bruni F (a cura di). La relazione che cura. L’unità della psicoterapia. Torino: Alessandro Lombardo Editore, 2021, pp. 185-189.

3. Galante R. Perché non lo lascio? Psicoterapia per donne legate a uomini maltrattanti. (Prefazione di Luigi Cancrini). Reggio Calabria: Carthago Edizioni, 2021.

Una breve rassegna stampa per Rose Marie Galante

Riportiamo qui di seguito due articoli apparsi su due diverse testate siciliane: nel primo viene tratteggiata la figura della psicoterapeuta mentre nel secondo si commenta il successo ottenuto presso la Corte Europea per la condanna della Bulgaria a seguito di atti di pedofilia perpetrati ai danni di minori in un orfanotrofio statale nei pressi di Sofia (sul n. 1/2022 di Ecologia della mente abbiamo ospitato un articolo, a firma di Rose Marie Galante e Silvia Pittera, in cui viene raccontata dettagliatamente questa vicenda).

Articolo pubblicato sul n. 245 di Paesi Etnei Oggi (dicembre 2016), a firma di Roberta Fuschi.

Rose Galante, la pioniera in Italia nella lotta alla violenza di genere

Le trenta candeline del Centro di terapia relazionale, diretto dalla dottoressa Sonia Di Caro, raccontano una storia importante per il territorio etneo. Un’avventura nata dall’ambizione della psicoterapeuta americana Rose Galante, pioniera nel campo del contrasto alla violenza di genere, che negli anni ottanta ha squarciato il velo del silenzio in una porzione di mondo “diffidente” e impaurita.

La strada in salita

La storia del Centro di psicoterapia inizia sei anni prima del taglio del nastro inaugurale di quello che oggi è «il centro più stabile della Sicilia Orientale». È il 1980 quando la psicoterapeuta arriva a Tremestieri Etneo. La strada di Rose è tutta in salita. «I primi sei anni sono stati difficili perché non avevo capito bene la situazione in Sicilia, nel 1980 una donna non siciliana che si permetteva di creare un centro di formazione faceva una cosa mai vista ed era percepita come una minaccia», spiega. «Dopo sei anni ho capito che avevo due possibilità: rinunciare o allearmi con forze più grandi di me, basta solo essere donna per avere tutti contro», racconta. La psicoterapeuta decide così di «affiliarsi» al Centro Studi di Terapia Familiare e Relazionale di Roma. Una partnership feconda che dura fino ad oggi.

Violenza di genere e abusi sui minori

Il metodo di lavoro di Rose è rivoluzionario a partire dai temi tabù da affrontare a viso aperto. «Mi sono focalizzata sul maltrattamento delle donne e gli abusi sui bambini: questi erano temi che nessuno voleva che fossero esaminati. Oggi è diverso, ma allora era così». In effetti, di acqua sotto i ponti ne è passata tanta. Eppure sono tante le false credenze da scardinare nel sentire comune. «Oggi le persone pensano che gli abusi siano aumentati: non è vero. Oggi semmai se ne discute di più: parlare è il primo passo», argomenta la psicoterapeuta. I fenomeni in questione, del resto, si nutrono proprio di «omertà». «I maltrattamenti sono avvolti nel segreto, una volta interrotto quello, tutto può succedere». «In qualsiasi situazione in cui c’è una preda, ci saranno i predatori ma oggi abbiamo gli strumenti per combattere». Lo scoglio da superare è sempre uno: la parola. «Il problema più grosso è quello della vergogna, legato al segreto: le donne non parlano. La vergogna è l’emozione più distruttiva per l’autostima. Anche con i bambini che non capiscono bene perché sentono questa vergogna. E poi è legata al senso di colpa perché ci sì chiede: cosa ho fatto per diventare vittima? Che segnali ho mandato? Come se fosse loro responsabilità. Tutte queste emozioni e sentimenti creano degli ostacoli per l’aiuto a superare questo trauma», argomenta.

Una divulgatrice

Rose ha anche scritto un libro sull’argomento. Un testo, dal titolo emblematico (“Perché non lo lascia”), che «parla del bisogno di continuare a insistere con le donne perché uscire da questa situazione è possibile». «Le donne hanno bisogno di figure professionali, ma anche di famiglie e amici che non le giudichino e che non diano loro la responsabilità, quello che invece spesso capita», spiega. Spesso a prevalere è il giudizio misto a una sottile attribuzione di responsabilità come se la violenza fosse scatenata dal comportamento delle donne che al contrario «non vanno lasciate sole».

Gli uomini

Il problema della violenza, però, riguarda soprattutto gli uomini e la loro capacità di mettersi in discussione. «Adesso più uomini si mettono in discussione, trent’anni fa anni non era così, davano per scontato che se una donna era in questa situazione o lo cercava o lo meritava». Oggi è più semplice perché «si parla molto di questi temi». «Ci sono molti uomini che difendono le donne in tutto e per tutto», spiega. Diverso è il caso di chi agisce la violenza. «I maltrattanti raramente provano vergogna: è molto difficile aiutarli a cambiare, non accettano la responsabilità, dicono che la donna ha provocato tutto questo e cambiano quando temono di perdere mogli e figli cioè solo se sono a rischio di perdere tutto perché per loro è normale quello che fanno e quasi mai provano un senso di vergona».

Il ruolo dello psicologo

La fotografia scattata da Rose è chiara e prende le mosse da anni di difficoltà e «minacce» ai suoi danni da parte dei maltrattanti. La situazione però non è statica nemmeno per quanto riguarda l’utenza del centro. Le persone che si rivolgono al centro oggi presentano problemi meno gravi di un tempo («minacce di suicido, psicosi, anoressia»). Oggi si bussa alla porta del centro perché i bambini hanno problemi a scuola o per sanare conflitti all’interno dei rapporti di coppia. «È tramontata l’idea che ci si rivolge allo psicologo soltanto in presenza di problemi gravi», racconta.

La piccola rivoluzione copernicana si è verificata anche grazie all’impegno e alla determinazione di Rose.

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Articolo pubblicato sul n. 24 del settimanale I Vespri (wwwsettimanalevespri.it), a firma di Carlo Majorana Gravina.

Minori abbandonati, condannata la Bulgaria per atti di pedofilia

Dall’osservazione di comportamenti sospetti nei loro ragazzi, una coppia di genitori adottivi, dando loro fiducia, ha intentato un’azione legale, con giusto supporto psicoterapeutico, davanti alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, ottenendo la condanna di aguzzini, complici e, addirittura, della nazione dove avvenne la turpe vicenda: la Bulgaria.

La sentenza, destinata a fare giurisprudenza, riguarda fatti avvenuti nell’orfanatrofio di un paesino vicino Sofia: tre vittime, allora 10 e 12 anni, oggetto di atti di pedofilia da parte di turisti del sesso con il favoreggiamento degli operatori dell’orfanotrofio, senza alcun controllo. Il processo ha fatto emergere zone grigie e comportamenti opachi che, aggirando o ignorando l’ampio dettato normativo a cui sono tenuti gli istituti di accoglienza, danno luogo a condotte criminali e immorali.

La condanna per culpa in vigilando della Bulgaria (l’orfanatrofio era statale), precisa «quando si tratta di pedofilia, ai sensi dell’art. 3 della Convenzione Europea sui Diritti dell’Uomo, gli stati membri sono tenuti a raccogliere proattivamente tutte le prove pertinenti, prendere sul serio la voce e le opinioni delle vittime e responsabilizzare i professionisti della medicina, della psicologia, dell’istruzione e delle scienze sociali ad aiutare i bambini a parlare liberamente. Le testimonianze dei bambini devono essere valutate con metodi scientifici e i bambini devono essere protetti e auditi con ogni precauzione». Fenomeni di violenza e abuso ai danni di minori fragili e vulnerabili, specialmente segnati da un vissuto di abbandono, difficili da convalidare per la dubbia attendibilità di alcune prove, la giovane età delle vittime, che potrebbe comportare fantasie e suggestionabilità, in questo caso sono stati considerati grazie all’impiego di metodi scientifici.

«L’utilizzo di metodologie e protocolli scientificamente validati – spiega l’avv. Francesco Mauceri –, tra cui il sistema di valutazione utilizzato dal dottor Sergio Chimens, neuropsichiatra infantile, è considerato, sul piano scientifico internazionale, il migliore strumento per verificare l’autenticità dei racconti dei minori vittime di abusi, e ha permesso una giusta valorizzazione delle prove e la loro fondatezza».

La psicoterapeuta Rose Galante, che ha seguito la vicenda assieme alla collega Sara Bach, osserva: «La sentenza è stata resa possibile anche e soprattutto per il coraggio e la tenacia dei due genitori, che hanno aperto il proprio cuore ai loro piccoli, dando loro credito sin dal primo istante e non mollando mai durante il lungo percorso di rilevazioni, valutazioni, audizioni, che non ha risparmiato momenti di legittimo sconforto».

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Resoconto della condanna della Corte Europea del 2 febbraio 2021

Il 2/02/2021 la Grande Camera della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha condannato la Bulgaria in relazione a gravissimi atti di pedofilia avvenuti in un orfanotrofio bulgaro. Un’équipe formatasi appositamente in Sicilia (avv. Mauceri, dott.ssa Galante, dott.ssa Bach) ha difeso i minori, ora in Italia, rimasti vittime di sconcertanti abusi. Il risultato raggiunto con la condanna della Bulgaria può essere considerato straordinario, come gli stessi giudici evidenziano nella sentenza. Per la prima volta vengono valorizzate in questo ambito le prove raccolte attraverso l’audizione dei bambini, raccolte e valutate da esperti operanti nel settore specifico (psicologi, neuro-psichiatri infantili) attraverso l’uso dei migliori e più recenti metodi e strumenti scientifici di valutazione. La Corte dà atto della qualità della metodologia e dalla prassi adottata dall’équipe privata, nonché della metodologia adottata dall’autorità giudiziaria italiana competente che ha esaminato le relazioni, le video-registrazioni effettuate dall’équipe multidisciplinare, tenuto nuove audizioni dei bambini; come ulteriore elemento di prova si è avvalsa della perizia redatta dal neuro-psichiatra infantile dottor Sergio Chimens, che ha utilizzato il sistema di valutazione BCAA, migliore strumento per il riconoscimento dell’autenticità dei racconti dei minori vittime di abusi. La Bulgaria ha fondato la propria difesa sulla concezione arcaica dell’assenza di prove mediche di carattere invasivo. La Corte ha respinto ogni eccezione mossa dallo stato convenuto e ha stabilito un principio fondamentale: la Convenzione della CEDU si evolve così come si evolvono gli strumenti di riferimento applicabili nel territorio di competenza. Per questo gli stati membri – quando si tratta di pedofilia in genere – dovranno uniformarsi a quanto previsto dalla “Convenzione di Lanzarote”. Ai sensi dell’art. 3 della convenzione CEDU pertanto, concludono i giudici, «gli Stati sono tenuti a raccogliere proattivamente tutte le prove pertinenti, a prendere sul serio la voce e le opinioni delle vittime e a responsabilizzare i professionisti della medicina, della psicologia, dell’istruzione e delle scienze sociali per aiutare i bambini a parlare liberamente; riguardo le metodologia investigativa, questa deve rispondere ai requisiti di celerità, avere carattere ed approccio proattivo e non burocratico, utilizzando mezzi di raccolta delle prove quali intercettazioni, perquisizioni, sequestri. Le testimonianze dei bambini devono essere valutate con metodi scientifici e tenute in prima considerazione, i bambini devono essere protetti ed additi con ogni precauzione».

La Corte – con una sentenza destinata anche a cambiare l’approccio in materia degli stati aderenti, che ribalta una precedente decisione della V sez., nonché una serie di vincoli obsoleti – condanna la Bulgaria per la violazione dell’ad. 3 della Convenzione: «Nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti» e sottolinea al contempo le gravissime responsabilità dell’Ente ALBI che ha agito sinergicamente con le autorità bulgare, e che erano già state accertate dal Tribunale dei Minori italiano.